Adios Italia. Michal Schlegel con il pugno alzato sul podio, ceco di nazionalità, e davanti a lui un portoghese, Ruben Guerreiro, e poi un eritreo Amanuel Ghbreigzabhier. Un podio che nulla ha a che vedere con Negrar e la cittadina adagiata sulle colline della Valpolicella dove si producono due dei vini più apprezzati al mondo, il recioto e l’amarone.
ODORI, COLORI E… FESTE DEL PERDONO – Insieme, sono un tripudio di sapori e di essenze. Un pò come questo podio. Multicolore. Dai tanti odori, profumi, colori. Dall’olivastro del portoghese che vince, al cioccolato dell’eritreo, al bianco-latte del ceko. Il ciclismo è questo. Il ciclismo moderno è questo. Ed è imbarazzo per noi italiani.
Questi ragazzi sono tutti puntualmente professionali. Corrono, poi arrivano, scendono di sella si fermano sotto il podio, si cambiano nei locali adeguati e non in mezzo alla strada, sono quasi atarassici. Attendono il proprio turno, sorridono gentilmente. A chi si avvicina a loro firmano con flemma l’autografo. Sono professionisti in tutto e per tutto. Salgono sul podio, attendono il cerimoniale e poi il momento della conferenza stampa. Tutto rigorosamente in inglese.
Rimangono composti dietro il tavolo. E rispondono a ciò che viene loro chiesto da noi giornalisti. Insomma cala l’imbarazzo. Noi abituati agli schiamazzi, agli spintoni, a qualche “madre de dios”, a qualche “dai movate”. Negrar, quest’anno ci insegna anche questo. E ci fa vedere soprattutto questo. Un ciclismo che si è evoluto, che si è globalizzato.
LA LEZIONE – Un ciclismo che non sentiamo più nostro. Fatto in Italia da appassionati. Sempre meno, perchè l’età anagrafica non perdona e ormai fa scrivere tanti requiescat in pace. Abbiamo osservato ai piedi del podio il personale delle squadre dei tre arrivati. Composti, zainetto sulle spalle, smarthphone per lo scatto da inviare all’ufficio stampa (uno solo, con direttive chiare), attendono il corridore con compostezza. Davvero un ciclismo che non ci appartiene più. Che ci deve costringere ad uscire dalla dimensione strapaesana, delle Feste del Perdono ad esempio in Toscana, dove agli arrivi, specie quelli sulle salite si tira una corda e via. Si deve uscire da un ciclismo fatto alla “va là che va ben”... E poi è inutile acquistare camion, pulmann, fare inutili sceneggiate, buttarsi per terra, prendersi a pugni dopo la gara per un circuito polveroso.
Inutile pensare alle corse di paese, al circuito del campanile. Se non si esce all’estero, se non si pensa in grande ma soprattutto si osserva e metabolizza come il ciclismo è cambiato, rimarremo alle feste paesane.
Abbiamo osservato a Negrar. La tecnologia ad uso dei team, si inviano mail per le convocazioni, con tanto di struttura organizzativa, chi corre, dove corre, il numero di passaporto, il mezzo sul quale salire, la targa del mezzo, il massaggiatore, il meccanico. Lo staff insomma. Senza bigliettini volanti, cambi all’ultimo. La programmazione. Vero, il corridore non è un robot. Ma il ciclismo moderno è anche questo. E noi in Italia siamo rimasti alla festa del paese. Negrar ce lo ha dimostrato… Adios Italia.