Il Giro di Turchia tra i camini delle fate della Cappadocia è un po’ come la sindrome di Stendhal. Ti sfiora, ti prende, ti paralizza. Ne resti ammaliato, per quanto di romantico possa esserci in una corsa ciclistica, dove – è bene ricordarlo – il pericolo si cela davvero dietro ogni angolo. Se di patologia è legittimo parlare, è senza dubbio psicosomatica.
Fedele al fascino di un paesaggio che sul pianeta è realmente inimitabile e che vale alla stregua di un’opera d’arte, l’intero gruppo resta a guardare, dilungandosi oltremodo. Allo spettacolo di tale scenario vengono a mancare i soli balloons, alias le mongolfiere, caratteristiche in questa zona: troppo forte è la spinta del vento per gustarsi lo spettacolo all’orizzonte da una posizione altamente privilegiata. Così, per oltre tre ore, sul duro anello di 36 chilometri nel cuore della Cappadocia, mentre il plotone procede ad andatura quasi turistica, c’è un po’ di gloria per tre comprimari, scattati una manciata di pedalate dopo il via: il francese Baldo e gli italiani acquisiti per lunga militanza Eugert Zhupa ed Eduard Michael Grosu, albanese il primo, rumeno il secondo, rispettivamente al servizio di Southeast e Nippo-Vini Fantini. Apprezzabile la loro mossa, la voglia di esporsi e rischiare a fronte di un dislivello comunque preoccupante.
E’ la media sul giro che non lascia scampo alle loro ambizioni: 35 all’ora il primo passaggio, 34,5 il secondo, 33,7 il terzo, non prima di aver goduto di un vantaggio a lungo assestatosi sui quattro minuti e mezzo. A tutto c’è un limite, però. I tre crollano sul finale del penultimo giro, dopo un paio di spaventi (vero Zhupa e Baldo?) causati dal vento nella velocissima discesa che segue l’abitato di Göreme, “capitale dei camini”.
Il vento contrario irrigidisce la loro azione, questa volta sembrano essere i tre battistrada le vittime di Stendhal, sedotte dal richiamo delle pietre color ocra erose dal tempo. La corsa finalmente si è svegliata, non è più tempo per spot cinematografici. Ai meno 44 dal traguardo avviene il ricongiungimento con la testa del gruppo e a 30 si lanciano verso l’arrivo 14 aspiranti vincitori, ad una velocità finalmente degna di tale ambientazione.
C’è un problema. Per tutti ma non per la Caja Rural: gli iberici sono ben cinque, contro i due della Lampre-Merida (il leader della classifica Niemiec ed un bravissimo Koshevoy) che ha appena visto staccarsi un quasi irriducibile Petilli. Poi ci sono gli azzurri Finetto e Carboni, la maglia rossa di miglior scalatore sulle spalle di Remy Di Gregorio e Silvestro Szmyd, che cade rovinosamente ai meno 18 per una sbandata causata dal vento, salvo poi recuperare sanguinante il terreno perduto.
Ah, c’è pure un cane, un grosso meticcio nero, due volte davanti a tutti, durante la tappa: ai precoci fuggitivi (memorabile lo scarto di Grosu per farlo – invano – allontanare) e agli sfidanti per la vittoria a soli 2000 metri dall’arrivo. I cani in libertà, inutile nasconderlo, sono un bel problema per le strade di Turchia e non è la prima volta che la corsa viene a contatto con il randagismo a quattro zampe. Alla fine, dopo ripetuti scatti e controscatti, sulla rampetta in simil-pavé che conduce al traguardo, il basco Pello Bilbao ne ha più di tutti. Leggerissimo, saluta la concorrenza e ringrazia la squadra, chiudendo con ben dieci secondi sul gruppetto regolato dal compagno Gonçalves. Terzo è Mauro Finetto, mentre Rebellin cede oltre due minuti. Niemiec conserva la maglia azzurra di leader per sei secondi, fiducioso di tenerla anche dopo la terza tappa, che si conclude a Konya, la città dei dervisci rotanti fondati dal poeta mistico della letteratura persiana Mevlana.
da Goreme, Gian Paolo Grossi