Neri come la pece. Non uno sponsor, una scritta o un ghirigoro qualsiasi. A spezzare la monocromaticità di una divisa basic, ma così tanto che di più non sarebbe davvero possibile, c’è giusto una sottilissima riga “fluo” tirata, dritta come un fuso, dal collo alla cintura. Per il resto, è balck. Un total black che lascia a bocca aperta.
MEN IN BLACK – In un tripudio di colori, tonalità e fantasie di vario genere, come quello che da sempre siamo abituati a vedere in carovana e dove il massimo del rigore è rappresentato dalla sobrietà-fashion di alcune compagini WorldTour, il Team Illuminate non passa, certo, inosservato. Un po’ per l’aplomb particolarissimo di braghe e maglietta ma, sopratutto, perché questi ragazzi della formazione statunitense sono veramente incredibili. Nel senso più positivo del termine.
Tanto si propongono austeri nella “mise”, tanto i “men in black” sono “scatenati”, allegri e festosi nel comportamento e nella mentalità. Il loro primo foglio firma in quel di Baku, sede di partenza della tappa di apertura del Tour d’Azerbaidjan 2017 dove sono attualmente impegnati, si trasforma in un trinfo di allegria, risate e applausi.
Capitano di questa scoppiettante, ma professionalissima, brigata è Edwin Alcibiades Avila, colombiano ventisettenne che, nella vita, ha scelto di essere anche veloce oltre che scalatore.
SHOW – Nella mattinata dell’apertura, il sudamericano si presenta al cospetto del pubblico assiepatosi sul lungomare della capitale azera e, in due secondi netti, si guadagna i galloni di beniamino assoluto. Del resto, come non amarlo incondizionatamente? Arriva nella zona dedicata al podio e, una volta zompato giù dalla bici come un felino, cellulare alla mano comincia a scattarsi selfie-ricordo con chiunque, saltando da un punto all’altro fino a che la spinta di un compagno, che è il doppio lui, non lo scaraventa in volo d’angelo direttamente “in braccio” ai flash delle macchine fotografiche e degli smartphone, che cominciano a scattare impazziti. Spettacolo e gioia puri. Perché una corsa è anche una festa e scene come questa fanno bene all’umore e al ciclismo, che ha bisogno di “eroi semplici”, con il sorriso largo e il cuore grande.
Il sorriso di Edwin è larghissimo, come grandissimo è il cuore. “La verità? Sono sempre contento.” Gli occhi, di un marrone scuro, si illuminano quando inizia a commentare la scenetta di qualche ora prima. “E mi piace la bici. Mi piace quello che faccio. Mi diverto. Il mio compagno mi ha spinto e mi è venuto spontaneo fare un salto. Qui in Azerbaijan avevo già visto anche l’anno scorso che c’è tantissimo pubblico, tantissimi giovani, e questa è una bellissima cosa. Amano il ciclismo. Chiedono sempre di fare delle foto. Si sente l’energia e tu sei troppo felice, perché puoi essere d’esempio.”
“RICORDATI PERCHE’ FAI IL CICLISTA” – Cercare di capire come mai l’ormai famosissima divisa sia, appunto, interamente nera è un qualcosa che si proietta in cima alla lista delle priorità. “Non so perché sia così,” spiega a proposito dell’outfit con la spontaneità che lo contraddistingue. “E’ la mentalità della squadra. Abbiamo degli sponsor, ma l’idea del team è di essere esattamente così. L’idea è che che ogni persona ha una vita e una storia, quindi non mettendo il nome dello sponsor non si vuole mettere pressione. Quando hai una scritta sul petto, tutti premono per i risultati e in questa squadra non c’è pressione. Vogliono solo che un atleta sia felice. Facendo nuove esperienze e divertendosi in bicicletta i risultati arrivano e sei tranquillo. Ti devi ricordare perché fai il ciclista. Non per lo sponsor o per una squadra, ma perché ti piace. Lo fai per te stesso, non per gli altri.”
“VOGLIA DI SCOPRIRE” – L’allegria di Avila è contagiosa. Non smette mai di ridere, nemmeno quando in un italiano praticamente perfetto parla delle cose più serie. “Ho imparato l’italiano perché volevo parlarlo. Quando correvo per il Team Colombia – dal 2013 al 2015, ndr – tutto lo staff era italiano, ma parlavano spagnolo. Io dicevo ‘parlatemi in italiano, voglio imparare’. Mi piace imparare e scoprire. Quando correvo con loro abitavo a Villongo e stando in casa con i compagni che erano miei connazionali si usava sempre la nostra lingua. Io ho detto ‘no, sono qui e devo imparare’. Così il ciclismo mi lascia qualcosa di più.”
Nato a Cali il 21 novembre del 1989, da quando la formazione di Corti ha chiuso i battenti e lui si è trasferito, la scorsa stagione, alla compagine statunitense Avila è tornato a vivere in patria, a Sopò, vicino Bogota, dove è iniziata la sua carriera nel ciclismo. “La mia avventura in questo mondo è iniziata da Bogota, ma prima abitavo a Cartagena. Vicino al mare. Io amo il mare, ma per allenarmi meglio Bogotà e l’altitudine. Lì siamo a 2600 metri.”
Salite si, dunque, ma senza disdegnare gli arrivi veloci. “Credo di essere un atleta completo. Vado bene in salita, bene in volata, bene a cronometro. Penso che sia perché ho iniziato in pista, facendo l’inseguimento. Penso che mi sia servito per tenere un buon ritmo in pianura. Adesso da quattro anni mi dedico molto alla strada, prima non l’avevo mai fatto. Ho iniziato a gareggiare su strada quando sono entrato nel Team Colombia e ogni anno sento di migliorare, soprattutto in salita. La pista la faccio ancora, specialmente alla fine della stagione quando iniziano le Coppe del Mondo.”
CICLISTA PER FORZA. E PER PASSIONE – Il racconto del perché abbia deciso di dedicarsi al ciclismo è come una favola. Di quelle che prima lasciano senza parole e, poi, strappano una lacrima per il lieto fine. “Non mi piaceva lo sport. Nessuno sport, a dire il vero. Volevo imparare e studiare. Ero un nerd.” Risata, ripresa. “Ma la vita mi ha lasciato senza scelta, perché a un certo punto o lavoravo o facevo sport. La prima gara che ho disputato in vita mia non mi ero allenato, ma subito ho vinto. E mi hanno dato dei soldi. Perciò ho detto ‘è più facile che lavorare’. A quel tempo in Colombia era pericoloso, c’era la guerriglia e noi siamo rimasti senza niente. Non avevamo da mangiare, figuriamoci se potevo studiare. Così ho iniziato e adesso sono qui. E mi piace. Non per i soldi. Ho tre sorelle e io che sono il più piccolo della famiglia ho pagato i loro studi e ho fatto l’uomo di casa.”
“IMPARI PER TUTTA LA VITA” – Considerato un grande talento, Avila ha forse patito un’incostanza mentale che gli ha impedito di esprimersi ai livelli più alti. E lui ne è consapevole. “Io ho iniziato a gareggiare su strada, come ho detto, con il Team Colombia, ma c’era pressione perché volevano i risultati. E’ normale che fosse così, ma per me era una cosa nuovo e sentire quella pressione non mi faceva stare bene nella testa. Anche stare tutto l’anno in Italia, lontano da casa e dagli affetti, era difficile. Non uscivo mai dalla casetta dove vivevo con i compagni, era tutto nuovo e mi mancavano tante cose. Adesso sono maturato, sono cresciuto. Ho visto come funzionano le cose e so come fare a gestirle. Allore non sapevo neanche come allenarmi, come mangiare. Il ciclismo è così. Impari per tutta la vita. Al Team Illuminate ho trovato un ambiente speciale. Il team manager mi ha dato fiducia e non mi ha mai messo pressione. Lui è sempre contento e dice sempre: ‘se vinciamo festeggiamo, se no festeggiamo’. Il primo anno, il 2016, ho dovuto imparare, perché ero in una nuova squadra. Qualcuno pensa che con la nostra mentalità non ci alleniamo, prendiamo le cose alla leggera. Ma non è così. Tutti sono professionisti e professionali.”
“SE VUOI VINCERE, DIVERTITI” – Quattro stagioni dopo il suo debutto in gruppo, Avila è cresciuto ed è maturato, dimostrando di aver trovato la “ricetta” per affrontare al meglio il proprio lavoro. “Se vuoi vincere ti alleni. Con o senza pressione. Siamo più uniti, in squadra, grazie a questa mentalità. Tutti guardano al capo con distanza, ma il nostro Team Manager è come se fosse un altro compagno di squadra. Si sta troppo bene. Il mio sogno? Continuare così. Crescendo. Voglio fare il ciclistica e arrivare a rifare le grandi corse. Io ho disputato due Giri d’Italia, ma con un’altra testa. Aspetto che arrivi il momento di tornare su quei tracciati e voglio fare bene. Se vinco, sono allegro. Se non vinco, allegro. Se cado, allegro. Perché arrabbiarsi?”
AMBIZIONI AZERE – “Al Tour d’Azerbaidjan mi piacerebbe, certamente, vincere.” Avila non si nasconde. Quinto nella frazione introduttiva della gara caucasica, la Baku-Sumgaiyt, il minuto sudamericano punta più in alto, anche dal punto di vista altimetrico. “Con la seconda frazione inizia la salita. I percorsi così mi piacciono, ma certamente ci vuole anche la fortuna. Amo le tappe dure dure, con la salita…ma non troppa!” Alcibiades. Il suo secondo nome rimanda al politico ateniese, un grande personaggio e un grande “leader”. “Di sicuro, so che ho esperienza e le gambe. Ma una cosa è certa: qualcuno può vincere al tuo posto e qualcuno può insegnarti qualcosa di nuovo. Io sono sempre pronto a imparare. E a scoprire cose nuove, anche su me stesso.”
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