Stridore di freni, una scivolata giù per la discesa bagnata, la bicicletta che sfugge dai pedali, un corridore prontamente si rialza, un altro resta a terra dolorante con la bici a qualche metro. Si tocca la spalla. Crak. Clavicola spaccata. Soccorritori e spettatori li aiutano. Qualcuno commenta che la discesa con il bagnato era troppo pericolosa, senza rispetto delle norme di sicurezza. “Una carneficina ad ogni corsa – commenta un direttore sportivo -. Davvero servirebbe una riflessione seria sulle gare che si vanno ad affrontare. E finalmente fare pulizia. Almeno tra i dilettanti. Gare nazionali e internazionali con una classifica di merito e di qualità. Chi non la rispetta non organizza. Punto”.
Sono arrabbiati i direttori sportivi della categoria dei dilettanti. Ogni martedì, sabato e domenica assistono a cadute di gruppo, rotture di clavicole, polsi, femori, ulne e radio come se piovesse. Il ciclismo deve essere uno sport, non una infermeria ambulante. La gran parte delle cadute serie e delle fratture, ammette qualche diesse, avviene nelle corse regionali, specie del centro Italia, dove tutto sembra concesso, a volte senza il minimo rispetto delle fondamentali regole di sicurezza. L’importante è correre e organizzare. Ma in questo modo, continuano alcuni diesse, ne va della qualità delle prestazioni, dell’immagine del nostro ciclismo e soprattutto della salute degli atleti. I filmati, le foto, le dirette girano sui social. E si vede davvero di tutto.
Gente che passeggia sotto il traguardo mentre arrivano i corridori e ci sono le volate, assenza di linee per fotografi e video reporter, transenne fatte con un cavalletto e un tubo innocente, arrivi in discesa, motostaffette che non segnalano i pericoli ma stanno in gara solo perché possiedono una moto e si comprano con un piatto di pastasciutta al sugo di cinghiale. Un sistema completamente da rivedere quello delle corse in Italia. Purtroppo il modo di andare sulle strade è cambiato negli anni. Da parte degli automobilisti è vero, non c’è rispetto al transito di una corsa. Cinque minuti di attesa possono sembrare un’eternità, e allora volano insulti tra l’automobilista e l’omino con la bandierina. E qualcuno forza persino i blocchi del traffico. In più occasioni è accaduto, e a farne le spese i corridori. I corridori poi. Più di qualche diesse ammette che i ragazzi di adesso possiedono minori doti funamboliche di un tempo. Ovvero stanno meno in piedi. Le cadute durante una volata sono diventate una costante. Complice anche la pressione delle ruote. Si tende a gonfiare al massimo le coperture senza tener conto dello stato delle strade, del meteo, se piove, se c’è il sole, se fa caldo o freddo. I materiali. Sempre più leggeri, performanti. E forse pericolosi per una buona tenuta di strada.
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Una carneficina. Un termine agghiacciante per i direttori sportivi che ad ogni corsa devono fare i conti con brandelli di pelle dei propri corridori raccolta sull’asfalto o ossa rotte. Vero che gli squarci sulle gambe, sulle braccia o sul viso sono medaglie del ciclismo. Ma dietro alle medaglie ci sta anche la vita e soprattutto la sicurezza. Un ciclismo che ha bisogno di qualità e non di quantità. Un ciclismo bipolare. Da una lato viene definito ciclismo su strada. E dall’altro si tende sempre più a farlo andare sul fuoristrada. E in alcune regioni d’Italia, specie al Nord, si sta assistendo ad una vera e propria sommossa popolare contro le gare sugli sterrati. Dagli esordienti ai dilettanti ora se non c’è sterrato non è gara.
Che siano 17 tratti di sterrato come alle Strade Bianche di Romagna, polvere a non finire e corridori a grappoli nei fossi, per finire alla corsa di allievi che termina a Monselice sullo strappo di acciottolato ( qualcuno li ha definiti veri e propri spuntoni di roccia viva), non è gara. Una vera condanna per le squadre, i direttori sportivi, i corridori, i presidenti delle società. Perché, se i professionisti sono attrezzati per affrontare gare modello Parigi – Roubaix (il paveé è differente rispetto all’acciottolato medievale dei nostri territori e le buche in mezzo alla campagna dove affondi con mezza bicicletta) e hanno biciclette, coperture, cambi, ruote e materiale differenti rispetto agli allievi o agli esordienti, disponibilità economica compresa, per le categorie giovanili le gare sullo sterrato si trasformano in un vero e proprio salasso. Peggio di una Waterloo. Ruote rotte, raggi spaccati, cambi frantumati, forature a cascata.
Per carità la multidisciplina è fondamentale, ma va affrontata nei termini e nei modi giusti e con i mezzi giusti. Sta riflettendo su tutto questo la Struttura Tecnica Nazionale e il buon Ruggero Cazzaniga, rieletto alla carica di vertice federale, e presto potrebbero essere in arrivo delle novità.
Un buon calendario coordinato per le categorie elite e under23 e juniores, gestito da una cabina di regia nazionale, una tabella di qualità delle gare, chi fa bene e rispetta tutti i criteri va avanti, chi non lo fa resta fermo un turno e si adegua o torna indietro di categoria. Un po’ come a Monopoli. La conquista finale deve essere il Parco della Vittoria. Ma Parco in tutti i sensi. Per creare sistema, sinergia, immagine e soprattutto sicurezza. E non trovarsi tredici minuti prima della partenza di una cronosquadre senza la striscia per terra per poi trattenerla con i piedi o con due boccacce, per non ritrovarsi con un cronometraggio preistorico, per non veder partire dei ragazzi da una rampa di lancio di una crono fatta con tre bancali e un pezzo di compensato. O recuperare transenne anteguerra. E’ finita l’era del camion con pianale. E’ forse il momento di fermarsi e fare una riflessione.
Spalmare un calendario adeguato sul territorio nazionale, convincendo i comitati regionali a creare un equo numero di gare per le varie categorie ogni domenica. Il tutto senza più lasciare spazio all’improvvisazione e al disequilibrio del calendario. Perché tanto va sempre tutto bene… Finché andrà…