Rouandesi, sudafricani, belgi, danesi, americani, russi, ucraini, bielorussi. Tutti i paesi del mondo riuniti sotto una sola bandiera. Quella del Giro d’Italia under23. Che parla la lingua del mondo, della globalizzazione, ma non quella tricolore. Manca una sola tappa. Un po’ come al Giro d’Italia dei più grandi che ha dato un netto 0 a 20 per l’Italia. Una sola tappa vinta da Nibali. Qui, al Giro Baby, se le squadre italiane non danno una svegliata ai loro ragazzi, ovviamente tricolori, si rischia di restare 0 a 7.
Poi fai colazione, discuti con alcuni direttori sportivi italiani e ti accorgi di quanto sia diventata ormai ristretta la loro mentalità. E di quanto siano impreparati i nostri a contrastare un dominio straniero che si vede in ogni forma. Da come si presenta sul palco delle premiazioni Pavel Sivakov, maglia rosa, di origine russa, al Giro, alla mentalità dei nostri ragazzi. “Eh ma noi facciamo ad esempio 50 e passa corse in Toscana e ne organizziamo pure – si inorgoglisce il petto un giovane diesse ex corridore poco vincente come il suo curriculum di diesse -. Il ciclismo siamo noi”. Eh si, si vede infatti…
Dalle bastonate che i nostri ragazzi stanno prendendo dai loro coetanei stranieri. Che affrontano il ciclismo dilettantistico in modo già professionale. La Bmc vivaio del World Tour non va a prendere i migliori. Individua i corridori che hanno potenzialità di diventare ottimi professionisti. Li porta a fare esperienze all’estero. Dal Fiandre under23 alla Liegi, alle corse a tappe nell’Europa Tour o in America. Fa girare loro il mondo. Certo, c’è chi è destinato a diventare campione, chi a fare il gregario. Ma in un gruppo serve anche quello. L’Importante è farlo bene e farlo a livello globalizzato.
Ai nostri italiani, reclusi nelle corse regionali specie del centro Italia, manca il respiro internazionale. Se poi si esulta per un solo quinto posto di Paolo Baccio alla semitappa a cronometro non c’è da stare allegri. Mettiamoci pure la sfortuna. La caduta inopportuna dell’unico corridore che avevamo in classifica, Matteo Fabbro che si rompe per la seconda volta in nemmeno un mese la clavicola. Ed ecco che si perde anche una eventuale vittoria di tappa.
Certo la speranza è l’ultima a morire ma se il buongiorno si vede dal mattino. I nostri team costretti a limare su tutto. Dalle spese per l’organizzazione dei team. In gruppo ammiraglie un po’ datate con gomme lisce e molto altro, a mettere a rischio la sicurezza. E poi parliamo di sicurezza in gara. Ma se un’ammiraglia monta gomme da 30 euro con le sgommate in curva e le frenate in discesa senza badare appunto alla sicurezza, chi che cosa stiamo parlando. Team che arrivano con la lista dei documenti dei corridori, i bagagli tutti uguali, serietà a cena e colazione, rigore. In molti casi invece i nostri team restano armate brancaleone che vincono per colpi di lato B. Ma non sempre può essere domenica, se poi ci confrontiamo con squadre super attrezzate straniere.
Perché all’estero il ciclismo è visto come businness, investimento. Investimento sugli atleti, investimento sull’immagine che coopta sponsor, progetti chiari e ben definiti, programmi dettagliati, business plan. Ma se a noi va bene continuare con le corse dei sacchi… ci vediamo all’ultima puntata del Giro…
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