La giornata di Morbegno ha lasciato strascici inevitabili. Per un momento usciamo dalla retorica del “ha perso il ciclismo” e guardiamo in faccia quanto successo prima di archiviarlo una volta per tutte.
Il ciclismo, grazie alla passione di tanta gente, non perde mai. Ieri, a perdere è stato il ciclismo del World Tour. Quello dei motorhome, delle squadre multinazionali, quello super-professionalizzato da essere peggio dei dilettanti più disorganizzati.
Quanto è successo alla partenza di Morbegno ha messo in luce tutti i limiti di questo tipo di professionismo: senza personalità, fatto di apparenze e di persone troppo spesso incompetenti e apatiche.
I corridori non parlano più con i propri direttori sportivi. Quelli che guidano l’ammiraglia sono ormai solo dei manager di sè stessi; non conoscono i ragazzi che vestono la loro maglia, non sanno di cosa parlano, non sanno con chi si scrivono e non sanno cosa provano. Tutti concentrati su VAM, Watt, radioline e dati statistici hanno perso di vista l’elemento umano.
In un gruppo orfano di squadre vere e di campioni carismatici, alla 19^ tappa di un Grande Giro ci si lamenta della stanchezza e tanto basta per inscenare una protesta sgangherata. La Federazione ha abdicato al proprio ruolo e i rappresentanti delle varie associazioni dei corridori (scusate, ma mi rifiuto di definirli “sindacalisti”) sono da troppo tempo del tutto incompetenti e inadatti a ricoprire il proprio ruolo: non basta aver corso per saper consigliare e rappresentare i corridori. Rappresentanti che non hanno nulla da dire e si lasciano sostituire da un gruppo Telegram; associazioni che non sono in grado di confezionare un comunicato stampa ufficiale e sono incapaci anche di prendere una posizione davanti ai microfoni. Facendo passare per colpevoli i propri assistiti pur di salvare la propria faccia.
Pensate che in questi mesi i corridori hanno accettato di tutto (dal calendario folle e tamponi fatti ogni 48 ore) e si sono ribellati nella giornata meno significativa dell’intera stagione: con tutti i drammi che ci apprestiamo a vivere (corridori senza contratto, squadre che spariscono, calendari da riorganizzare), il motivo di protesta è diventata una tappa piatta, di trasferimento, di 258 chilometri. Sarebbe stato sufficiente un capitano a mettere tutti d’accordo: 10 in fuga e si viaggia tutti insieme a 30 all’ora. Ma no, ieri a Morbegno non ce l’hanno proprio fatta.
E, infine, nel giorno in cui in carovana era presente anche patron Urbano Cairo a perdere è stata anche RCS Sport: troppo morbida la linea di Mauro Vegni, inutili anche le parole del suo sfogo. Un agnellino con i corridori, un leone ai microfoni: dice che qualcuno pagherà ma l’impressione di tanti è che a fine Giro sarà proprio lui a fare le valigie.
Se si vuole ripartire lo si dovrà fare dagli uomini e dalla passione per il ciclismo. Quella vera, non quella confusa solo con un modo come un altro per portare a casa lo stipendio. Il ciclismo ricco e globalizzato, a cui non fa differenza che si corra al Giro d’Italia o al Tour de Guangxi, ha perso e non ci sarà riscatto in grado di cancellare questa ignavia. Per chi ha voglia di pedalare, invece, si apre uno scenario nuovo, tutto da riscrivere.