Incastonata al centro della regione della Vallonia, la piccola cittadina di Huy bagnata dalla Mosa è conosciuta per una stradina che si distacca dal centro urbano per proseguire l’arrampicata tra le casette di mattoni e le cappelle dei pellegrini; stiamo parlando del Muro di Huy.
Lo strappo finale, giudice da ormai quarant’anni della classica Freccia Vallone, conta 1.3 km di lunghezza, dai meno 1300 ai meno 1000 la sede stradale è ampia, i nostri eroi sono ancora cullati, ma è sotto la flame rouge dell’ultimo chilometro che il tracciato prende una leggera deviazione a destra e inizia a restringersi come a indicare che da qui in avanti non è per tutti, è solo per pochi, è solo per chì vuole affrontarla danzando sui pedali; si perchè la Freccia è un ballo di gruppo, e il muro di Huy la pista di danza su cui 100, 50, 35, 20 piccoli danzatori decidono una volta all’anno di dare sfogo alle proprie coreografie.
Ai meno 500 m si giunge nella chicane sinistra destra, qui le percentuali superano il 10% e lo scenario a bordo strada cambia, la vegetazione si infittisce, gli atleti vengono avvolti nell’ombra dell’imprevedibilità, i pochi rimasti che ancora non hanno le gambe del tutto spezzate dallo sforzo, tentano di sopravvivere e fare una cosa assurda: accelerare, per gli altri è tempo di risedersi e contare i secondi, i minuti di agonia prima di valicare la linea finale.
Nessuno guarda nessuno, gli sguardi non si incrociano, ognuno sale sotto religioso silenzio con un certo pudore verso il mostro che hanno sotto le ruote, un pò come degli alpinisti che scalano i valichi alpini – un passo dopo l’altro, una pedalata dopo l’altra – guardando in basso l’asfalto ruvido e sperando che la pelle dei tubolari non ci si incolli. Solo a pochi metri dall’arrivo sarà concesso rialzare lo sguardo per capire dove ci si trova e nel caso sorridere o piangere.
DAVIDE E LA SUA SALITA:
Se c’è una corsa e un muro che più di altri possano ricordare e a far rivivere un’altra volta il nostro Davide Rebellin, quello è senza ombra di dubbio il muro di Huy, capace di domare la piccola vetta per tre volte (2004, 2007 e 2009) rimane ad oggi, a distanza di quattordici anni l’ultimo ad avere piantato il tricolore in cima.
Davide conosceva bene i muri delle sue Ardenne, ma con Huy si era instaurato un rapporto di diverso, era il suo figlio preferito, corsa per sedici anni all’interno della sua lunghissima carriera, era sempre in attesa che arrivasse Aprile e la settimana santa per lui: quelle delle Ardenne.
L’attesa per il mercoledì, l’attesa per incollare di nuovo il numero sulla schiena, l’attesa che qualcuno facesse la prima mossa, l’attesa di sferrare l’attacco decisivo, l’attesa di alzare le braccia sulla linea di arrivo o solo di tramutare il ghigno di sofferenza in un sorriso di sollievo. Già dopo l’arrivo Davide che avesse vinto o meno non vedeva l’ora di poter rimettere gli scarpini per la domenica successiva a Liegi o per il mercoledì di metà Aprile dell’anno successivo, persino nelle ultime stagioni da professionista la sua unica volontà era quella di tornare su quel mitico strappo, di tornare a vivere la scalata del muro.
Anche Davide è stato un ballerino ma non solo, anche regista e scrittore di un racconto che rimarrà inciso nella pietra dei ricordi del ciclismo; è il momento ora di far rivivere le gesta del campione, è tempo di prendersi un piccola sospensione dal tempo della vita reale, mettetevi comodi bastano solo all’incirca 1300 metri e poco più di tre minuti di tempo.