L’aria frizzante del mattino sferza la faccia come una carezza gelata, costringendo il corpo e i pensieri a svegliarsi del tutto mentre gli occhi, ancora impastati di sonno, combattono una personalissima battaglia con i primi raggi di luce che, filtrando dal cielo, illuminano le cime appena spruzzate di candida neve.
Anche Cervinia (Ao) – meno imbiancata del solito in questo tiepido inverno, ma non meno affascinante – si ridesta dolcemente dal torpore notturno, rivelando allo sguardo la maestosa sagoma del Cervino: 4478 metri che hanno scritto capitoli della storia dell’alpinismo, come solo le grandi montagne sanno fare. Che hanno fatto, altresì, da spettatori a epiche pagine di ciclismo, come – in un 2015 ormai prossimo alla conclusione – nel finale della diciannovesima tappa del Giro d’Italia, dominata da Fabio Aru. Come, altresì, nella terza frazione del Giro della Valle d’Aosta per Under23, esaltatrice del nazionale russo Matvey Mamykin.
Ciclismo e alpinismo: discipline diverse, eppure analoghe per stoicismo e fatica; attività differenti, legate però da quella sottile linea rossa che porta l’uomo a confrontarsi con l’avversario più temibile. Se stesso e il propri limiti.
L’UOMO DEI RECORD CHE AMA IL CICLISMO – L’asfalto, iridescente di pagliuzze ghiacciate, della località valdostana accompagna i passi di un grande interprete di questo binomio non solo fisico ma, al medesimo tempo, mentale: Simone Origone.
Guida alpina, maestro di sci ed elisoccorritore. Sciatore professionista, alpinista d’alto livello e recordman dell’adrenalinica specialità dello Speed Ski. Un palmares impressionante. E una smisurata passione per le due ruote. Quando il trentaseienne di Champoluc (Ao) fa capolino nella hall del Sertorelli Sporthotel la sorpresa, per chi di persona non l’aveva mai visto, è che non assomiglia affatto a quella sorta di ascetico monaco zen che ci si aspettava di incontrare avendo a che fare con un “mostro sacro” di scalate e affini. Tutt’altro, è un ragazzone alto e atletico, dalla parlantina sciolta e dai modi impeccabili.
“La mia passione per il ciclismo è nata quando ero piccolo. La mia famiglia a Champoluc ha un albergo e, a maggio, ricordo che mio papà si fermava da qualunque lavoro stesse facendo per andare a vedere il Giro d’Italia. E io con lui. Ogni anno, una tappa della Corsa Rosa vado a vedermela dal vivo. Senza contare che gli sciatori, da sempre, usano la bici come preparazione.” Il racconto del Simone-ciclista parte da lontano e dalla profonda ammirazione per Miguel Indurain. “Mi ha sempre emozionato molto poi, se dovessi indicare il mio campione preferito, sicuramente direi Marco Pantani. Le emozioni che ci ha regalato sono indescrivibili. Le salite appassionano certamente di più, nel ciclismo, e lui faceva dei numeri veramente incredibili. Da ragazzino, però, mi piaceva anche Mario Cipollini. Per quanto riguarda gli atleti attuali, ammiro Peter Sagan, perché è un po’ personaggio. Poi Alberto Contador, Fabio Aru e Vincenzo Nibali.”
Scalatori, come lui, che la bicicletta l’ha usata per realizzare alcune delle sue imprese: “Facevo record estivi in montagna di endurance, poi ho lasciato. Nel 2007 ho scalato tutti i 4000 del Monte Rosa e il Cervino in 17 ore e 40 minuti. Nel 2009 da Chamonix ero andato in cima al Monte Bianco, dal lato di Courmayeur. Discesa, poi bicicletta fino a Cervinia e via, sul Cervino. L’idea era quella di riaffrontare il Rosa in 24 ore, ma mi sono fermato in cima al Cervino in 17 ore. La montagna è il mio ambiente naturale. La montagna e la neve sono le cose che mi piacciono di più. Ora, per problemi al ginocchio – un buco nella cartilagine che sto cercando di risolvere – posso solo sciare. Per tornare alle scalate bisognerà aspettare almeno un annetto.”
“BECAUSE IT’S THERE” – Perché scalare una montagna? Perché è lì. La famosa frase di George Mallory ha accompagnato generazioni di alpinisti. Anche quelli che, magari, si sono fermati ben prima di una sfida chiamata K2; che Simone ha affrontato. “Ho girato poco al di sotto della cima. Ho preferito tornare.” La “febbre della vetta”, cioè il non riuscire a trovare la forza di voltare le spalle a un sogno e tornarsene indietro, è uno dei démoni degli scalatori e una delle più infide cause di disgrazia. Specialmente se ci si trova sull’ottomila – 8609,02 metri, per la precisione – più difficile della Terra, a un’altitudine dove il corpo comincia lentamente a morire e la mente a poco a poco si spegne. Non è stato così per Simone, che la lucidità di restare vivo e intero l’ha, invece, trovata. “Andare lassù è stata una sorpresa. Nel 2014 è stata organizzata questa spedizione per celebrare la prima ascesa italiana al K2 – il 31 luglio 1954, guidata da Ardito Desio e comprendente Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i primi ad arrivare in cima, ndr – , uno dei componenti dieci giorni prima della partenza ha rinunciato, così mi hanno chiesto se volevo andare. Io, ovviamente, ho risposto di si, ma il discorso è che prima di misurarsi con un 8000 così è meglio farne uno più facile. Ci vuole esperienza, può essere pericoloso. Senza contare che siamo saliti senza ossigeno. Il K2 è una montagna dove se hai problemi è difficile che riescano ad aiutarti. Senza contare che non ero allenato. Mi piacerebbe tornare. Tornare preparato. Mi ha fregato, questa cosa. Io sono uno sportivo professionista, mi preparo per tutto e il fatto di non esserlo stato adeguatamente mi ha tolto motivazioni e lasciato con poche aspettative. Al campo 4, poi, ho preso un integratore che mi ha piantato lo stomaco. Lassù è difficile alimentarsi. Fino al campo base puoi mangiare e bere, poi non hai più appetito…”
UNA VITA IN VERTICALE – Salire in alto, più delle nuvole e del cielo stesso. Inseguire un obiettivo. Andare in verticale sfidando le pendenze e le leggi di gravità. Non solo “perché sono lì”. “Io non mi sono mai focalizzato troppo sull’idea che si debba scalare una montagna perché è lì. Io ci abito, in montagna. Da piccolo mi portavano sempre. Il mio primo 4000 è stato il Polluce, a 11 anni. A quel tempo arrampicavo parecchio e anche bene, poi ho iniziato con le gare di sci e mi sono dedicato solo a quello. Quando ho smesso con lo sci, ho fatto i corsi per diventare guida alpina e maestro di sci.”
Ed è cominciata l’epoca dei record e dello sci di velocità, di cui Simone parla con grande umiltà e naturalezza, come se essere l’uomo più veloce in assoluto senza l’ausilio del motore fosse la cosa più normale del mondo. Usando quel tono pacato di chi è abituato a mettersi lo zaino in spalla, abbassare la testa e “menare”. “Da un sacco di anni sono lo sportivo più veloce sulla terra senza un motore. Uno si abitua a esserlo. L’ultimo record l’ho fatto il 3 aprile 2015 a Vars, in Francia: 252,632 km/h. Anche se nessuno ha mai battuto il mio primo record – 2006 a Les Arcs, 251,40 km/h poi migliorati nel 2014 con 252,454 km/h, ai quali si aggiungono cinque ori e un argento mondiali e otto coppe del mondo, ndr -.”
“Le prime quattro prestazioni di tutti i tempi sono mie. Secondo è mio fratello, a pari merito con un atleta francese, che ha la quinta. La passione è cominciata perché quello che una volta si chiamava chilometro lanciato è nato a Plateau Rosa. C’era un’epoca in cui l’unica gara al mondo veniva fatta a Cervinia. L’ultima volta è stata disputata nel 1978; io sono nato un anno dopo, ma il ricordo era ancora forte. Ho sempre conosciuto questa disciplina e ho sempre pensato che, se mi fossi fermato con lo sci, mi sarebbe piaciuto provare. Quel giorno è arrivato nel marzo del 2003 e, da allora, non ho più smesso.”
IL CORAGGIO DI AVERE PAURA – Lanciarsi a capofitto, come un proiettile. Guardare in faccia le vette più temibili del pianeta. La paura, per chi sceglie di vivere la propria vita ben oltre le normali aspettative della gente comune, può diventare una compagna di viaggio. E può non essere sempre sgradevole. “Certo che anche io ho paura. Al K2 ne avevo tanta. Qui, prima di partire è là, una volta arrivato. Ma poi ti abitui. La paura è un sentimento umano ed è ciò che ti fa sopravvivere, in certe situazioni. Io sono anche caduto più di una volta. Nella mia specialità, ma anche nello slalom. Lì è uguale: arrivi che hai un campanello che ti dice che stai rischiando e, per eccellere, devi andare oltre.” E andare più veloce. Anche, se a volte, è necessario fermarsi. Come quando era stato contattato dal famoso reality show “Monte Bianco”. “Avrei potuto essere una delle guide di quel programma, ma a causa dei problemi al ginocchio non ho potuto lavorare con loro. Non so se sia stato un bene, o un male. Certo, come guida sarebbe stata una bella pubblicità. A dispetto di alcune polemiche che si sono create intorno a quel programma io credo che, tutto sommato, abbia lanciato un messaggio giusto. Certo, c’era una gara e c’erano le dinamiche della televisione, ma il fatto di mostrare al pubblico che le persone, soprattutto se non esperte, devono affrontare la montagna con una guida professionista è positivo. Poi viviamo nel mondo della polemica e, con i social, tutti dicono la loro.”
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