Sai che gli importa all’appassionato lettore se il cronista di turno, inviato sul posto per raccontare del 52° Giro di Turchia, resta impantanato tra gli scali d’aeroporto e finisce col perdersi l’esito della tappa inaugurale, inscenata con sapiente buongusto nel cuore di Istanbul. Avrebbe potuto – sempre il cronista vostro – essere testimone di un poco invidiabile primato, che ha tolto presto il sorriso a corridori e direttori sportivi.
Pronti, via e dopo soli 8 chilometri, complici fattori molteplici – un restringimento, il solito spartitraffico a forma di birillo traditore, la pioggerella che cade sull’asfalto impregnato di smog e la discesa di un sottopasso – finiscono a terra in 25, a velocità sostenuta: così tornano subito a casa il velocista Carlos Barbero (Caja Rural, sul podio un anno fa proprio a Sultanahmet, ora clavicola ko), due pedine della Nippo-Vini Fantini (una spalla malconcia per Marini) e qualche altro protagonista. Ma l’asfalto lo toccano anche i big: Greipel, Rebellin, Modolo.
Fermi tutti, il Giro parte nientemeno che con una neutralizzazione, tanto per non sconvolgere la corsa ancor prima di un qualsiasi attacco. Poi però la corsa si sviluppa in modo appassionante, su un circuito cittadino che solo vagamente ricalca quello noioso di un anno fa. Collegate dal ponte sul Bosforo le ruote veloci sfilano tra la Istanbul europea e quella asiatica, anche se il gran finale è nel breve toboga che abbraccia la chiesa di Santa Sofia e la Moschea Blu. Ed è a dir poco ingeneroso non aver ancora citato sin qui quella vecchia volpe di Przemysław Niemiec, vincitore della tappa per distacco con un numero d’alta scuola, su un percorso che si poteva ritenere a lui poco adatto. Nella sua reiterata assenza, prolungatasi anche in occasione della conferenza stampa, il cronista avrebbe voluto rivolgere al primo leader della corsa alcune domande sul suo ruolo in seno al team Lampre-Merida, compresa quella suprema legata alla pronuncia del suo nome. Pazienza, sarà per la tappa odierna, che vede la corsa avventurarsi per la prima volta in Cappadocia, tra i noti camini delle fate e una dura ascesa da scalare quattro volte. Già, portare il Giro di Turchia in Cappadocia era la grande sfida messa in atto dal precedente organizzatore della corsa, che proprio nel 2016 si è visto costretto a passare la mano. Nuova organizzazione, dunque, e percorso rivisto per metà, con partenza nella capitale (di solito a Istanbul si teneva il gran finale) e tappe che seguono imbastite nella Turchia centrale, prima di prendere, secondo consuetudine, la strada costiera a sud del Paese.
Tornando al cronista vostro, è pur vero che attardatosi non ha potuto raggiungere il quartier tappa ma ne ha apprezzato l’epilogo nel circondario dell’aeroporto Ataturk, accompagnato in un caffè da un inserviente della corsa. Ed ha trovato conferma nella totale dipendenza da tè dei turchi, che si ritrovano nei kiraathane (i bar di periferia, da non confondere con i kafe del centro città) per sfidarsi a okey o tavla, giochi sui quali ci addentreremo in settimana. Mentre la tv irradia le immagini della corsa, nessuno alza un sopracciglio. Meglio i giochi da tavolo, oppure le carte. Una sola curiosità: nel kiraathane ci sono 27 (ventisette!) uomini a zero, più quattro parcheggiati a fumare davanti, attorno ad un tavolino.“Questo non è un luogo per donne” mi spiega Murat. Ne prendo coscienza, promettendomi di approfondire l’argomento.
Per concludere una giornata di lungaggini, ecco il temporale che in serata ritarda la partenza di uno dei charter per la Cappadocia. Ciclisti e addetti ai lavori a letto ben oltre la mezzanotte. Sulla strada per Göreme vedremo chi ha riposato bene e chi no.
da Istanbul, Gianpaolo Grossi