Nel “Il circolo Pickwick” Charles Dickens raccontava il viaggio, nel 1827, di alcuni amici attraverso l’Inghilterra vittoriana. Storie, aneddoti, frammenti di vita. Gli stessi che raccontano a fine stagione i corridori.
Aneddoti, storie, pensieri. E soprattutto a fine stagione si crea pure il “circolo dei senza contratto”. Ogni anno purtroppo la stessa storia. Corridori che si devono confrontare con il futuro, fare i conti con i risultati e magari anche con l’età. Corridori che devono ripensare la propria vita senza la bicicletta. Un pezzo di vita che se ne va. Per lasciar il posto a giovani virgulti, molto spesso dotati di piccola cassaforte al seguito, un investimento per la carriera ciclistica senza magari averne titoli. Togliendo magari il posto a chi invece lo meriterebbe. Succede sempre più spesso in Italia. All’estero invece quasi mai. Vincono la professionalità, i risultati, la serietà. Gli ordini d’arrivo danno ragione a chi interpreta un ciclismo moderno, globalizzato, serio. Sempre meno italiani nei primi posti delle grandi corse, gare che hanno nome. Forse qualcosa si deve cambiare. E’ arrivato il momento della svolta. Nessuna squadra italiana Wordl Tour, solo quattro professional e, ovviamente, non c’è posto per tutti. Le continental azzurre, poi, fanno storia a se. E non sono continental per far crescere i giovani come invece era nel progetto federale. Sopravvivono i team dilettantistici ma slegati a progetti internazionali rischiano di morire soffocati in un circolo vizioso di corse fra pochi intimi. E nel confronto internazionale veniamo bastonati.
Ragazzi che a trent’anni, chi a quaranta, si trovano costretti a voltare pagina. Due chiacchiere, a margine della festa del fan club di Matteo Busato, altri due anni per lui alla Wilier Southeast, con corridori come Marco Bandiera, sei anni da professionista a buon livello e ancora un contratto da definire per il 2017, con Mattia De Marchi ad una svolta tra lo smettere o approdare in una continental straniera per cercare di dare un senso ancora a tutti gli anni passati in bici. Ma soprattutto riflessioni importanti di Matteo Tosatto, vent’anni e più da professionista, otto mondiali con gli azzurri di cui quattro vinti con Cipollini, Bettini e Ballan ti fanno capire che il ciclismo italiano è a un punto morto.
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Anzi, che i manager del nostro ciclismo professionistico devo fare un salto di qualità. “Vent’anni fa quando sono passato io professionista, dopo quattro anni da dilettante, a 22 anni il mondo era completamente diverso. Per i giovani c’erano tante possibilità e gerarchie da rispettare – si apre ai taccuini Matteo Tosatto, per otto anni fido scudiero di Alberto Contador -. e chi ti insegnava il mestieraccio da corridore. Adesso ognuno deve salvarsi come può. Io non ho ancora deciso cosa farò del mio futuro. Sono in trattative. Ma alla mia età, a quasi 43 anni, dopo aver girato il mondo in bicicletta ed essere stato in sella per 37 anni, non voglio strappare un contratto che non sia alle mie condizioni. Un tempo si poteva trattare e c’erano garanzie e basi solide . Ora ci si deve accontentare. Tra i sogni nel cassetto anche quello di fare una bella squadra. Partire con un bel gruppo di dilettanti e crescere. Dare spazio ai giovani che meritano davvero e far ritornare il ciclismo italiano ad alti livelli. Una buona professional costa qualche milione di euro, per una world tour i prezzi sono spropositati. Diciamo che ho buoni contatti e di sicuro non resto fermo. Se dovrò gioco forza prendermi un anno sabbatico, tornerò nel 2018 con qualcosa di molto concreto. Voglio trasmettere la mia esperienza ai ragazzi che ora crescono. Di alcuni, in gara, potrei addirittura essere padre, vista la mia età. Ma di una cosa sono certo, avendo girato il mondo, noi italiani dobbiamo tornare ad alzare la voce”. Ecco se il “circolo dei senza contratto” comincia ad assottigliarsi, noi ne siamo davvero felici.