C’è l’UCI, con i suoi regolamenti, le sue prospettive e i suoi progetti di sviluppo globale del ciclismo. E poi c’è il Tour du Rwanda che si sta correndo in una nazione candidata ad ospitare una prossima edizione dei Campionati del Mondo.
Basta guardare le foto per capire che è tutta questione di “spirito”: mentre i vertici del ciclismo internazionale, ivi compreso il presidente Renato Di Rocco, si sono prodigati a smentire i regolamenti introdotti lo scorso primo gennaio, inventandosi novelli sommelier in grado di discettare sulla differenza tra gli alcolici con più e meno di 15 gradi per tranquillizzare organizzatori e team manager già sul piede di guerra, in Rwanda lo sponsor principale della corsa è la birra Skol con tanto di esibizione del marchio, del magnum di birra sul palco e brindisi alcolico.
Non supera i 15 gradi, si dirà. E quindi è consentita. Ma pur sempre di un prodotto alcolico il cui abuso porta all’ubriachezza, si parla. A fare la differenza non è certo il grado alcolico, quanto, semmai, l’utilizzo che se ne fa. E un atleta che brinda sul podio stappando la bottiglia non è certo immagine di “moderazione”.
Ci sarebbe da fare dello “spirito” sulla vicenda se non fosse la profonda tristezza che tutto questo infonde in chi ama questo sport. Ma davvero, alle soglie del 2020, il ciclismo mondiale si è ridotto ad un branco di moralisti imperfetti secondo cui va bene pubblicizzare e commerciare alcolici sino ai 15 gradi mentre da 16 in sù sarebbe il caso di vietarlo?
Ci serve davvero un David Lappartient per decidere che il Prosecco va bene e la Malvasia no? Il Recioto si ma l’Amarone no? Il Franciacorta si e un buon Chianti o un buon Barolo no? La birra si e la grappa no?
E poi ancora: secondo quale elaborato principio morale vino, tabacco e pornografia danneggerebbero l’immagine del ciclismo mentre agenzie di gioco d’azzardo, linee di credito telefonico e Paesi con diritti civili non del tutto garantiti, sarebbero moralmente accettabili nel range degli sponsor?
Da un decennio, ormai, l’UCI ha deciso di scimmiottare la Formula 1: super team dai costi sempre più insostenibili, circuiti sempre più chiusi, trasferte in posti dove il ciclismo non si era mai visto, zone riservate ai VIP e, adesso, divieti agli sponsor “immorali”. Ma questo, signori, non è ciclismo. Non è questo il ciclismo che accende i cuori e la passione della gente! A farlo sono i campioni, quelli veri, con le loro imprese, le loro debolezze e, perchè no, i loro vizi. Quelli che non hanno bisogno di un team miliardario per vincere le grandi corse: proprio quelli, che da soli sono in grado di scardinare il sistema.
Ed è semplicemente ridicolo pensare che qualcuno si ubriachi o inizi a fumare solo perchè sulla maglia di un corridore qualsiasi c’è il brand di un’azienda che produce alcolici o sigarette. Avete mai fatto un giro tra i tifosi delle due ruote? Avete mai chiesto loro se sanno cosa producono aziende come “CCC”o “Ag2r” o “La Mondiale” o “Bora” o “Deceuninck” tanto per citarne alcune?
Il perbenismo ipocrita dell’UCI che vieta la pubblicità ma allo stesso tempo finge di non vedere le centinaia di tifosi che si ubriacano sui campi del ciclocross in Belgio e in Olanda o all’interno dei velodromi del nord Europa o, ancora, a bordo strada alla Parigi-Roubaix, al Giro delle Fiandre o sull’Alpe d’Huez, non renderà certamente migliore questo ciclismo.
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